Da che mi ricordo, in chiesa non c’era predica che non iniziasse col vocativo: Miei cari fratelli.
Crebbi nella mia vita devozionale a colpi di «miei cari fratelli», al punto da non farci nemmeno più caso, come capita con certi intercalari che, senza che ce ne accorgiamo, sono sempre pronti a installarsi nello spazio fra una parola e l’altra. Cominciai a rendermi conto che l’intercalare era una cosa seria una domenica mattina d’un freddissimo inverno in un anno in cui, a stare solo con la tessera annonaria, un giovane (ma anche un vecchio) avrebbe mangiato a sufficienza solo se si fosse sognato di sedersi a una tavola di prima della guerra.
Avevo 17 anni. Dopo la messa alta mi fermai un momento sul sagrato per attendere e salutare l’arciprete; lui avrebbe poi fatto due passi sulla sinistra e si sarebbe trovato in canonica, mentre io sarei corso dritto per un duecento metri e mi sarei trovato nel tepore della mia casa. Ma c’era Giuliano ad attendere l’arciprete. Non è che Giuliano frequentasse la chiesa; ci veniva raramente, e quella domenica di guerra, con la paura in giro di bombardamenti e mitragliamenti, era una di quelle rare volte. Ma aveva familiarità con l’arciprete per via di certe Madonne e Santi che, in cambio di qualche piatto caldo di minestra, schiccherava sui muri. Appena lo vide uscire, si complimentò con lui: «Sa, signor arciprete, che ha fatto una bella predica? Ha detto che siamo tutti fratelli, è bellissimo, come i socialisti d’una volta». S’interruppe, annusò l’aria in direzione della cucina della canonica e fece un gesto di ammirazione. «Un cotechino», esclamò. E subito aggiunse: «Allora, se siamo tutti fratelli, spartiamolo tra di noi, me ne spetta la metà».
Il mio arciprete era persona molto intelligente e molto dotta, ma non trovò o non volle trovare lì sui due piedi una risposta, dotta sì ma non intelligente (ossia intus-legens, avrebbe spiegato dato che sapeva di greco e di latino; e come avrebbe fatto a legere intus la fame di un uomo?). Prese la cosa scherzando: «Avete voglia di scherzare stamattina, caro Giuliano. Si vede che i vostri affari vanno bene. Ne sono contento». E s’infilò in canonica.
Poveri affari di Giuliano: qualche sacchetto di granoturco da portare al mulino e non i sacchi colmi dei padroni, talmente esigui che nemmeno le guardie annonarie zelanti ne avrebbero chiesto la provenienza se avessero fermato il carretto e l’asino. Mi rincrebbe di non poter dimostrare solidarietà al mio arciprete, ma non trovai motivo di ridere; si sa, a 17 anni, quando si è certi che dal sangue dei ribelli per amore e di
quella immane guerra, e da poveri come Giuliano, sarebbe nato un mondo nuovo, fraterno, le cose le si prendono tutte sul serio.
Adesso, dopo 60 anni da quel giorno, nonostante abbia superato gli anni del mio arciprete di allora, rimarrei ancora serio di fronte alla richiesta di Giuliano, anche se, e soprattutto perché, non è nato nessun mondo nuovo in cui gli uomini si riconoscessero fratelli, e sfruttamenti e guerre sono continuati; quando non si voglia dire che, nell’ambito d’una stessa famiglia, o d’una stessa chiesa, il significato che si dà al termine “fratelli” si allunga e si restringe a seconda delle nostre disposizioni ad accettare, con tutte le gradazioni e sfumature possibili, il contenuto che Giuliano dava a tale termine in quella domenica di fame e di ammazzamenti, e che ancora oggi, c’è da
scommettere, in tutte le chiese viene ripetuto all’inizio e nel corso delle prediche, adesso dette omelie.
Chissà che avrei fatto al posto del mio arciprete, chissà che farei oggi.
Sono miei fratelli quelli che muoiono straziati da bombe o dalla fame e dalla sete, o dalla cupidigia e dall’odio? Che dovrei fare per poter dire: Siete miei fratelli? Ogni risposta che mi do crea altre domande, che mi fanno capire l’impossibilità d’un appagamento definitivo nella sapienza degli uomini.
Nessuno mi può rispondere se non indicandomi l’unico Maestro che ci ha indicato tutti fratelli (Mt 23,8). È questa l’unica risposta. E allora guardo a Lui che ha realizzato nel suo stesso Corpo la profezia della fraternità universale «nella pace e unità» (Is 2,1-4; 66,18ss), nuovo Adamo (1 Cor 15,21ss) che ci ha fatto creature nuove (2 Cor 5,17), diventando con la sua morte «primogenito d’una moltitudine di fratelli» (Rm 8,29), «simile agli uomini» (Eb 2,17).
Si potrebbe continuare in questa esaltazione del Corpo crocifisso e risorto all’infinito.
Certo, sappiamo che è così, per fede naturalmente. Ma anche guardando a Lui, l’unico che ha fissato nel suo Corpo il senso dell’essere fratelli, rimane pur sempre la domanda: Che fare? non foss’altro che per affermare la mia fede nell’unico Fratello.
E adesso, che è come quell’inverno 1944, con innumerevoli uomini che mi chiedono quale credibilità abbia il mio indicare in Cristo l’unico Fratello! Che fare dunque? Basta gridare di dentro e di fuori, se c’è fiato, a ogni sopruso contro uomini concreti, la lacerazione in me della comune umanità? Nella Chiesa, continuamente inviata a trasmettere in modo credibile, assieme a quel Corpo crocifisso e risorto, il senso del dirci e dell’essere fratelli? Almeno che questo termine, ripetuto infinite volte, non diventi motivo di giudizio e di condanna (Lc 19,22), per pura misericordia.
Amen, miei cari fratelli, dico anch’io, almeno questa volta.
pubblicato su Loreto 2004, con il titolo “l’Altro vicino a noi