Non feci in tempo a conoscerlo, ma in casa mia, da quando cominciai ad afferrare il senso delle parole, se ne parlava spesso, se non altro perché per anni e anni — dicevano — passava quasi tutti i giorni davanti a casa, e due chiacchiere (o anche solo un saluto) non le negava, soprattutto a mia nonna che aveva lingua sciolta e gustosa.
Casa mia era una delle ultime d’una strada che dava direttamente sui campi, e lui, nella bella stagione, ma anche d’inverno se non c’era neve, tagliava giù per i campi per raggiungere la sua cascinetta detta Guzzafame. Attigua alla cascina c’era, e c’e tuttora, una cappelletta dedicata a S. Lucio. Nel piccolo spazio davanti c’era e c’e (ma non più in funzione) una pompa che pescava in un pozzo d’acqua freschissima.
Posso essere tanto preciso perché era la meta di noi ragazzi giovedì santo, giorno consacrato, il mattino, alla deposizione del Signore nel sepolcro e, il pomeriggio, alla sgura delle catene dei camini di casa, per stradette polverose e indurite da solchi invernali di ruote e da sassi. La pompa serviva per la gioia degli occhi nel constatare quanto le catene trascinate per un paio di chilometri avessero acquistato la pelle nuova e lucente della pasqua dopo la fuliggine di un anno intero.
Da quando il curato ci raccontò con parole sue la parabola del figliol prodigo, siccome la cascinetta Guzzafame aveva una specie di belvedere che s’appoggiava sui tetti, io vi vidi il luogo di osservazione del padre che tutti i giorni vi saliva per osservare tutt’intorno se mai vedesse il figliol prodigo avvicinarsi per il ritorno e corrergli incontro ad abbracciarlo. Anche adesso che sono vecchio, passando da quelle part in bicicletta o a piedi vi vedo, magari con l’aiuto di Rembrant, questo vecchio che fa con le mani solecchio per scrutare tutt’intorno l’orizzonte.
Proprietaria, agli anni della catena, era la signora Carla. Gliel’aveva lasciata in eredità lo zio prete, la persona che passava quasi ogni giorno davanti a casa mia per tagliare per i campi, come dissi, e recarsi nella cascinetta della Guzzafame. Lo si chiamava con nome e cognome, preceduti da un “povero”, per significare che era già morto. Si diceva sempre “povero” a nominare un morto. Lui tagliava per i campi e io, invece, la faccio un po’ lunga, ma per arrivare ad un altro prete il cui nome era certamente noto al proprietario della Guzzafame e di cui quest’anno, proprio nel mese di aprile, ricorre il sessantesimo della morte. Anche solo a dirne il nome, e tutto un mondo di sofferenza, di affermazione di dignità e di libertà, d’incomprensione, di dialettica non sempre pulita che emerge a caratterizzare un delicato e importantissimo periodo di storia, e non solo della chiesa. Intendo quel “Pellegrino di Roma” (è il titolo della sua autobiografa) che fu don Ernesto Buonaiuti.
Ne vorrei parlare per dire il mio grazie a preti come loro – e ce ne furono molti, più sospettati che in realtà, il che non diminuisce la sofferenza – se non altro perché, pagando di persona a volte in maniera esorbitante, ararono aridi terreni per trovarvi filoni d’acqua pulita adatta ad irrigarli. Posso, come prete, cogliendo l’occasione dell’anniversario, dire grazie a un confratello che fu scomunicato vitando, il massimo marchio d’infamia per un prete che non negò mai di essere chiesa e, contemporaneamente, si sottrasse sempre a una possibile riconciliazione se il prezzo era negare quello che costituiva, per lui e in coscienza, la verità e 1’onestà della sua ricerca di studioso?
Ma che c’entra quel prete della Guzzafame con Buonaiut? E che c’entro io? A legarmi a loro furono fili imprevedibili che a un certo momento, per circostanze ad incastro, s’incontrarono. Può darsi che la ragione di tutto questo lungo itinerario dei fili sia per ricordare, ora e pubblicamente, il sessantesimo della morte del prete scomunicato Buonaiuti che s’ostinò a definirsi sempre prete romano, e potergli dire grazie. E’ possibile anche perché non credo che ne abbia ricevuti molti sia in vita che in morte di quest “grazie”. Spero che non rifut quello di poco conto, ma pur sempre detto di cuore, di un suo fratello nel sacerdozio, che non rischia nulla perché nessun canone proibisce di riconoscere quanto uno ha ricevuto e di dire grazie.
Credo che seguire il corso dei fili che mi portarono a quest’ultimo gesto del grazie sia significativo per ogni storia, per ogni incontro. Che cosa è, infatti, la storia personale se non il risultato sempre nuovo di incontri, dal primo di un determinato spermatozoo con un determinato ovulo fra miriadi di possibilità, all’ultimo con il talità kum o con l’abisso del silenzio? Naturalmente il mio grazie passa per quel prete che, nella tradizione familiare si recava tagliando per i campi, quotidianamente, alla sua cascinetta Guzzafame. Seppi di lui che era stato arciprete in un’importane parrocchia, che aveva avuto guai e si era ritirato ancora vigoroso al suo paese, che sarebbe poi stato il mio. Non seppi altro né mai ne parlai col mio arciprete, nemmeno quando, ancora ragazzo ma già con qualche anno di seminario, la nipote, unica erede, sollecitata dal marito amico di mio padre, che fu mio padrino di messa, dispose che tutti i libri e le riviste dello zio confinati in soffitta, mi fossero donati. Da una soffitta a un’altra, debbo dire; e non poteva essere che così. Seppi da mio padre che la signora Carla, nell’occasione, aveva, bruciato moltissime carte e che i libri e riviste che aveva messo da parte per me li aveva setacciati pagina per pagina perché non contenessero lettere o altro. Credo che quelle pagine che giunsero a me e che ora hanno un posto particolare nella mia bibliotechina, possano delinearmi almeno un aspetto di questo prete quiescente, per lo meno dei suoi interessi culturali che 1’abbonamento a qualche rivista caratterizzata doveva costantemente alimentare quando era ancora nella funzione d’arciprete. Sono riviste “moderniste” i cui articoli erano spesso di sacerdoti irretiti da censure ecclesiastiche. Le cito solo per dire la consistenza del mio debito. Si tratta di 6 annate di “Studi religiosi”, dal 1903 al 1907 e del primo fascicolo 1908, a continuazione, della rivista “Vita religiosa”; di diversi numeri de “II Rinnovamento” (1907) e di Nova et Vetera” (1908). Unitamente alle riviste, e stampat dello stesso arco di tempo, ricevetti diversi volumi delle Conferenze di P. Semeria, e quasi tutto Bonomelli, con le lettere pastorali e la sua celebre traduzione, con note che 1’arricchiscono sostanzialmente, dei discorsi di Monsabré. La stampa periodica riprende nel 1912 con “Cultura contemporanea” fino al giugno del 1913, e con “Coenobium”.
Quest’ultima rivista ha il primo numero del 1914. Ne posso dedurre che col 1914 accade quell’avvenimento che fece disdire la rivista e che portò il mio compaesano proprietario della Guzzafame dall’arcipretura d’un importante paese e della diocesi .alla. sopravvivenza d’un quiescente, appesantito anche da censure per l’esercizio del ministero. Forse non è fuori luogo ricordare che nel 1914 morì il grande vescovo di Cremona, mons. Geremia Bonomelli che, pur avendo avuto un libro messo all’indice, e pur essendo ritenuto, in una certa stagione di caccia al modernista, non esente da simile infezione, era pur sempre un caposaldo e un difensore dei suoi preti. Nulla di più normale che in quell’anno i fuscelli diventassero travi e il mio povero compaesano ne pagasse il prezzo. A voler fare un rapido e approssimativo conto di anniversari di morte, se Buonaiuti moriva 60 anni fa — e in quale stato d’abbandono a Dio e d’isolamento dalla chiesa solo il Cielo lo sa! — del mio più modesto confratello di paese ne potrebbe ricorrere l’ottantesimo. Insomma voglio dire che nel mio grazie comprendo anche lui per quest preziosi document che m’ha trasmesso e che mi portarono ad amare Buonaiuti e molti altri confratelli di quel periodo che va sotto il nome di modernismo. Dire loro grazie vorrebbe significare per me il riconoscimento che la loro sofferenza non fu vana, che il loro studio, a volte irrequieto, a volte inasprito da ottuse opposizioni, lo posso ora vedere come segno d’uno stretto legame con la chiesa e di fedeltà alla propria coscienza nella ricerca della verità. Io penso che abbiano contribuito a
far vedere la chiesa come corpo vivo, non fossilizzato in schemi di potere. La “Storia del Cristianesimo”, per esempio, del grande Buonaiuti, ripubblicata anche recentemente in edizione accessibile a tutti, è la storia d’una comunità viva e libera, che passa anche
periodi di sofferenza ma che porta a un’invocazione che si vorrebbe sentire a conclusione di document ufficiali ortodossi (ossia senza ombra di modernismo, ma zeppi di parole, questo sì) o di convegni ecclesiali di progetti culturali o culturati: Ave Crux, spes unica! Mi basta aver onorato il piccolo modernista (ma sarà poi stato solo per questo? Non so, ma anche per questo, sì) quiescente al mio paese, nativo del mio paese, che m’aveva equipaggiato la sua cascina di una specula di vedetta per il Padre che attende e affretta col desiderio il ritorno del figlio, e che mi trasmise tanto materiale di “tradizione” sofferta; e il grande Pellegrino di Roma che, lo debbo dire se non fosse già chiaro, assomma tuta la mia affettuosa riconoscenza anche verso altri confratelli, in modo particolare biblisti che furono condannati per lo scandalo dei generi letterari nella Bibbia e dell’affermazione che Mosé non era lo scrittore del Pentateuco.
E poi, a dirla sommessamente, ci sarebbe quest’anno un quarantesimo del Concilio Vaticano II se non ci fosse stato un sessantesimo e anche un incerto ottantesimo della morte di due preti extra moenia? Il primo, Buonaiuti, che non si sa bene quanto entrò nella formazione di certi punti nevralgici del Concilio e il secondo del mio paese nel suo modesto ufficio, ma non meno prezioso, di trasmettere a un ragazzetto che è diventato un vecchio prete questa sempre presente titanica lotta fra lettera e spirito, fra il pensare degli uomini e il pensare secondo Dio (e che cos’è questo pensare se non l’Ave Crux spes unica del confratello Bonaiuti!). E Chi indisse il Concilio? Non fu il Roncalli di razza contadina e di solida dottrina, che aveva tanto cuore da incontrarsi col brillante professorino romano, il Buonaiuti, nell’amicizia e nell’unico sentire della salvezza che viene dalla Croce e non da un canone di diritto canonico? E chissà se fin da quegli incontri giovanili non abbiano ragionato assieme della coscienza, come del “nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo dove egli si trova solo con Dio” (Gaudium et Spes, 16)! Proprio come chiedeva lo scomunicato Buonaiuti nella sua tribolata storia di “Pellegrino di Roma”.
Per Viator n.4/2006 aprile, nel sessantesimo anniversario della morte dell’autore de Storia del Cristianesimo