“Chi vive in condizioni di povertà ha diritto ad attingere ai beni ecclesiastici”
Ebbi la fortuna – ma sarebbe meglio dire la grazia – d’avere, nella mia crescita di ragazzo e di giovane, un arciprete manzoniano. Non ne parlo, perché, solo a nominarlo, mi si aprono davanti strade fra campi e filari di gelsi ben ordinati in tutte le loro stagioni, e la mia penna vi scorrerebbe dentro con tutta la dolcezza d’un campo arato e seminato. Intendo solo ricordare che il mio arciprete amava, conosceva e citava il Manzoni con la confidenza e il rispetto che ha un discepolo per il suo maestro. Un po’ di questo suo amore riuscì a trasmetterlo anche a me quando, nei nostri incontri, io in silenzio e lui felice di poter trasmettere, mi faceva osservare la densità linguistica o psicologica di certi particolari e mi raccomandava la pazienza di fermarcisi sopra, che ne avrei tratto sempre un supplemento di bellezza.
Beh, l’ho presa un po’ alla larga per approdare a uno di questi particolari che m’erano sempre scivolati via nell’ampio fluire del cap. XXII (“Opere e giorni del cardinale Federico Borromeo”) e che, dal momento dell’impatto
con esso, m’è diventato punto di riferimento per far rivivere in me secoli e secoli di storia della Chiesa, quasi a dimostrazione della verità di quanto l’anonimo secentesco scriveva: «L’historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri, li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia». Ma ecco il particolare che reputo di tanto
significato. Al capoverso riguardante la preoccupazione costante del Cardinale «di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso insomma, se non quanto fosse strettamente necessario» il
Manzoni sceglie un’esemplificazione di vastissimo contenuto storico in poche righe, attuale come nessun’altra, per gli interrogativi che pone oggi.
Continua dunque il testo: «Diceva, come dicono tutti, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri». Basterebbe questo accostamento fra beni ecclesiastici e patrimonio dei poveri per interrogarci sul significato che oggi hanno i due termini e, nel caso che lo avessero, sul senso del loro accostamento. Si sa che il Manzoni non fa mai un’affermazione storica che non sia documentabile. Limitandosi alla figura del cardinale Federico, la dimensione storica la sostiene con un solo verbo, ma prima all’imperfetto e poi al presente: «Diceva» (ed è l’imperfetto che rimanda all’inizio del 1600), «come tutti dicono» (ed è l’oggi dell’edizione definitiva de I Promessi Sposi, più di due secoli dopo). Si tratta quindi d’una definizione dei redditi ecclesiastici legati al patrimonio dei poveri, anzi identificabili con esso, che si presuppone incontrastata almeno per due secoli; e tuttavia, da come il Manzoni prosegue, sembra evidente che il cardinale l’abbia a sua volta ricevuta già saldamente estesa per tutta la Chiesa. Prosegue infatti il testo: «Come poi [il cardinale] intendesse in fatti una tale massima si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi [bastavano] diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa, non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio». È in questa annotazione pertanto che si compendiano secoli e secoli di storia del modo con cui la Chiesa istituzione si poneva di fronte ai poveri e i poveri di fronte alla Chiesa, soggetti gli uni e l’altra di diritti e di doveri.
Il patrimonio della Chiesa, che aveva preso importante espansione con le donazioni dei re franchi, non era proprietà dell’istituzione ma dei poveri; come tale, l’istituzione lo doveva amministrare con la cura del pater familias, imponendo a tutti di non pesare su di esso qualora non ci fossero stati i requisiti della povertà, e difendendolo anche con minacce di sanzioni come la scomunica.
Ma chi era il povero? Povero era chi non poteva sostentarsi col proprio lavoro per situazione oggettiva; solo costoro potevano attingere ai beni ecclesiastici, anzi ne avevano il diritto, perché solo così potevano vivere.
Come dire che chi non aveva un impedimento fisico per procurarsi il proprio sostentamento, doveva lavorare e non pesare così sul patrimonio dei poveri sottraendone ingiustamente parte di ciò che essi avevano per vivere. Anche il clero doveva sottoporsi a questa regola. Il IV concilio di Cartagine (398 d.C.), ad esempio, richiama energicamente per il clero il dovere del lavoro al fine del sostentamento: «Il chierico provveda al vitto e al vestito con un lavoro artigianale o contadino… anche il chierico erudito nella Parola di Dio». In molti concili della Gallia nei secoli VI-IX, chi attenta a questo patrimonio è definito necator pauperum, assassino dei poveri. Solo il vescovo può attingervi non avendo possibilità di lavorare per le cure assorbenti della sua chiesa, diventando così il primo povero. Pertanto nessuno, vescovi e clero, ne può disporre ad altro titolo che non sia quello della povertà. Conseguentemente i vescovi non possono alienare né vendere nessun bene che sia stato dato alla Chiesa perché con questi beni vivono i poveri, come stabilisce il canone IV del concilio di Adge dell’anno 506, se non vogliono anch’essi entrare nel numero dei necatores pauperum (il canone richiama il canone VI del Concilio di Vasson di 60 anni prima). La sanzione più grave a chi attenta al patrimonio dei poveri, per un chierico adulto, è la scomunica. C’è tutto un rituale da seguire, come stabilisce il Concilio di Tours dell’anno 567. Dopo tre ammonizioni secondo la Parola del Signore (vedi per esempio Mt 18,15-17) che non hanno portato frutti di resipiscenza, c’è la comunicazione della scomunica da parte di coloro che, nel clero, sono stati defraudati perché, per il loro sostentamento, potevano contare solo sul patrimonio dei poveri (sono, allora, quei chierici che non possono procurarsi il sostentamento col lavoro delle mani: sono dunque dei poveri). Costoro, contro il peccatore impenitente, recitano il salmo di maledizione 108. La scomunica è definita l’unica arma che i poveri (nel clero e mediante il clero povero) hanno a disposizione per proteggere la loro vita: una legittima difesa contro chi cerca di ucciderli.
Ma mi fermo qui. Mi sembra sufficiente a dimostrare la ricchezza e la vastità storica di quella notazione sul cardinale Federico che tante volte m’era scivolata via come un abbellimento di panegirico. Ed è sufficiente a capire la ragione per cui il Manzoni, con la sua acutezza di storico e la sua sensibilità ecclesiale, scelga, per caratterizzare la vita tutta del Borromeo, l’aspetto del sostentamento, immettendo così il cardinale nel cuore d’una tradizione della Chiesa che durava da più di 1000 anni. Avendo già di suo di che vivere e di che far vivere la servitù, non intaccò minimamente i beni ecclesiastici che formavano la mensa arcivescovile, lasciando intatto il
patrimonio dei poveri, «non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio».
Che ne è stato di tutto questo? Quale denominazione hanno preso i beni ecclesiastici? E quale configurazione ha preso il patrimonio dei poveri? La mia impressione è che ci sia stato un gran rimescolio di carte e che la voce dei poveri insita in quei beni a rivendicarne il diritto, riconosciuto fin dall’inizio dagli stessi amministratori di quei beni, sia stata messa definitivamente a tacere. Vorrei che fosse per sordità legata alla mia età. E tuttavia il dubbio che il diritto sui beni ecclesiastici, che i poveri da più di 15 secoli potevano avanzare almeno formalmente, sia stato spento nella reciproca ignoranza (dei poveri e degli amministratori), mi sembra sia faccenda più di cuore che di orecchi. Ma che sa il cuore? Per citare ancora il Manzoni, se il cuore sa qualche cosa, non è su quello che sarà, ma su quello che è stato; e anche, in tale caso, solo un poco, appena un poco. Come dimostrano queste annotazioni.
A proposito ancora del Manzoni, possibile che fra tanti suoi cultori, al momento del rimescolio delle carte, nessuno abbia richiamato questo particolare che è un punto centrale non solo del profilo del cardinale Federico ma di tutta la storia della Chiesa? Credo che non siano domande accademiche o letterarie, ma di vita ecclesiale. Forse anche un giurista potrebbe dire la sua, giacché si tratta pur sempre d’un diritto che ha a che vedere, in un certo senso, con una “carta costituzionale”.
da “Viator. Un giornale con l’anima”)